Via XXIV Maggio n. 2 - 82100 BENEVENTO

   www.avvocatoboscarelli.it

Cassazione Civile: delega del creditore per l'estinzione del pagamento

Corte di Cassazione - Sezione Prima Civile, Sentenza 13 gennaio 2012, n.390
 

Cassazione Civile: decreto ingiuntivo e fallimento della s.n.c., effetti nei confronti dei soci

Corte di Cassazione - Terza Sezione Civile, Sentenza 24 marzo 2011, n.6734
 

  • Studio legale Boscarelli
  • Via XXIV Maggio n. 2 BENEVENTO
  • Viale degli Atlantici, 4 BENEVENTO
  • Via Nazario Sauro, 21 Colle Sannita
 

CONCORRENZA E PUBBLICITA' INGANNEVOLE

Cass. civ. Sez. Unite Sent., 15-01-2009 n. 794

 

L'apposizione, sulla confezione di un prodotto, di un messaggio pubblicitario considerato ingannevole (nella specie il segno descrittivo "LIGHT" sul pacchetto di sigarette) può essere considerato come fatto produttivo di danno ingiusto, obbligando colui che l'ha commesso al risarcimento del danno, indipendentemente dall'esistenza di una specifica disposizione o di un provvedimento, che vieti l'espressione impiegata. (Cassa con rinvio, Giud. pace Napoli, 04 novembre 2005)

 

 

 

Cass. civ. Sez. Unite Sent., 15-01-2009 n. 794

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il giudice di pace di Napoli ha condannato la British American Tobacco - BAT Italia s.p.a. al pagamento di una somma di danaro in favore del S. a titolo di risarcimento del danno, per aver colpevolmente prodotto, commercializzato e pubblicizzato confezioni di sigarette con l'utilizzo della dicitura "LIGHT", atta ad indurre in errore il consumatore medio in ordine alla presunta minore pericolosità e nocività di tali prodotti rispetto a quelli "normali". Errore nel quale - secondo il giudice - incorse l'attore, il quale ne subì sia il danno da perdita della chance di scegliere liberamente una soluzione alternativa "rispetto al problema fumo", sia il danno esistenziale dovuto al peggioramento della qualità della vita conseguente allo stress ed al turbamento per il rischio del verificarsi di gravi danni all'apparato cardiovascolare o respiratorio.

La British American Tobacco - BAT Italia s.p.a. propone ricorso per la cassazione della sentenza del giudice di pace di Napoli a mezzo di sette motivi. Non si difende l'intimato nel giudizio di cassazione. La BAT ha depositato memoria per l'udienza. La stessa società ha dichiarato di rinunziare al sesto motivo di ricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

A) LA GIURISDIZIONE. I motivi secondo e terzo, attinenti alla giurisdizione, vanno preliminarmente trattati.

Con il secondo motivo di ricorso la società ricorrente, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 1, pone, in sintesi, il seguente quesito:

se la controversia instaurata dal singolo consumatore per danni subiti a causa dell'utilizzo della dicitura "Light", da parte del produttore di sigarette, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario o nella giurisdizione del giudice amministrativo, ai sensi del D.Lgs. 25 gennaio 1992, n. 74, art. 7, comma 12, (oggi D.L. 6 settembre 2005, n. 206, art. 26, comma 13), dal momento che si tratta di pubblicità assentita con provvedimenti amministrativi, emanati, nell'espletamento delle loro funzioni di controllo e vigilanza, sia dall'Ufficio Italiano Marchi e Brevetti (UIBM), che autorizza la registrazione del relativo marchio, sia dall'Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato (AAMS), che autorizza l'inserimento in tariffa, delle sigarette, previa verifica, tra l'atro della regolarità delle etichettature.

Con il terzo motivo la società ricorrente, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 4, censura la sentenza per violazione dell'art. 112 c.p.c., in relazione all'omessa pronunzia di difetto di giurisdizione nei confronti dell'autorità Garante della Concorrenza e del Mercato o del Prefetto.

Quest'ultimo motivo può essere subito dichiarato inammissibile sul rilievo che non è prospettabile, sotto il profilo degli artt. 112 e 360 c.p.c., n. 4, la censura di omessa pronuncia in tema di giurisdizione, posto che l'aver deciso il giudice il merito della causa (come s'è verificato nel caso in esame) costituisce implicita accettazione della giurisdizione.

Venendo al secondo motivo di ricorso, la relativa risposta presuppone l'identificazione della domanda proposta dall'attore. Essa risulta caratterizzata dai seguenti elementi:

a) l'attore, premesso di essere un fumatore abituale di sigarette con un normale contenuto di nicotina e condensato, di averne contratto patologie respiratorie e cardiovascolari e di non riuscire a smettere di fumare, sostiene di essere passato al consumo di sigarette pubblicizzate come del tipo "Light", con un minor contenuto di nicotina e condensato, sulla presunzione che esse fossero meno nocive e pericolose;

b) tuttavia, nonostante il consumo di queste sigarette, le sue condizioni di salute, anzichè migliorare, peggiorarono, essendo quasi raddoppiato il numero di sigarette da lui fumate;

c) egli era divenuto, pertanto, vittima di una pubblicità ingannevole, illusoria, insidiosa, artificiosa e fuorviante, produttrice di danni per la sua salute, nonchè di ansia per il pericolo di rimanere affetto da cancro, con conseguente serio turbamento della sua qualità di vita;

d) di qui la domanda risarcitoria, nei confronti della società produttrice delle sigarette in questione, connessa a danni patrimoniali (la restituzione del prezzo pagato per l'acquisto dei pacchetti di sigarette da lui fumati) e non patrimoniali. I riferimenti normativi utilizzati dall'attore sono quelli di cui al D.Lgs. n. 74 del 1992, art. 5, coordinato con il D.P.R. n. 224 del 1998 sulla responsabilità del produttore.

Così riassunti i presupposti di fatto, nonchè la pretesa esercitata, è possibile desumere che nella specie l'azione esercitata è quella aquiliana di cui all'art. 2043 c.c., con riferimento a danni patrimoniali e non patrimoniali, considerati tra questi ultimi sia il danno alla salute, sia il danno, più generale, "alla qualità della vita". Significativo, in tal senso è il riferimento al D.Lgs. n. 74 del 1992, art. 5, a norma del quale "E' considerata ingannevole la pubblicità che, riguardando prodotti suscettibili di porre in pericolo la salute e la sicurezza dei consumatori, ometta di darne notizia in modo da indurre i consumatori a trascurare le normali regole di prudenza e vigilanza".

In questi stessi termini la vicenda risulta essere stata trattata dal giudice, il quale ha accertato "una chiara situazione di illegittimità del comportamento tenuto dalla BAT Italia con riferimento all'utilizzo artificioso della dicitura Light sui pacchetti di sigarette... che non può assolutamente trovare una valida giustificazione". L'individuazione dei danni verificatisi è stata limitata:

a) alla "perdita di chance da parte dell'attore di scegliere liberamente una soluzione alternativa rispetto al problema fumo";

b) al "danno c.d. esistenziale dovuto al peggioramento della qualità della vita conseguente allo stress ed al turbamento per il rischio di verificarsi gravi danni all'apparato cardiovascolare o respiratorio". Il giudice non ha, dunque, fatto menzione, tra i danni da lui ritenuti risarcibili, al danno alla salute, che (benchè sotto forma di aggravamento rispetto alle sue preesistenti patologie) l'attore aveva pure lamentato.

Neppure la ricorrente, oggi, pone in discussione che la controversia sia dibattuta in ambito aquiliano; tuttavia, essa invoca il disposto del D.Lgs. 25 gennaio 1992, n. 74, art. 7, comma 12, per sostenere che la causa rientri nella giurisdizione del G.A., in ragione del fatto che la pubblicità della quale si discute era all'epoca assentita con provvedimenti amministrativi.

Il D.Lgs. 25 gennaio 1992, n. 74, art. 7 menzionato (nel testo allora vigente, ossia, come sostituito dal D.Lgs. 25 febbraio 2000, n. 67, art. 5, comma 1, e prima di essere modificato dalla L. 6 aprile 2005, n. 49), sotto il titolo "Tutela amministrativa e giurisdizionale", attribuisce ad una serie di soggetti (i concorrenti, i consumatori, le loro associazioni ed organizzazioni, il Ministro dell'Industria ed ogni altra P.A. che ne abbia interesse) la possibilità di chiedere all'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato che siano inibiti gli atti di pubblicità ingannevole ritenuta illecita ai sensi del decreto stesso, la loro continuazione e che ne siano eliminati gli effetti. Lo stesso articolo detta la procedura che deve seguire l'Autorità, il suo potere di sospensione provvisoria della pubblicità ingannevole, i provvedimenti che può emettere all'esito dell'istruttoria (vietare la pubblicità non ancora iniziata o la continuazione di quella già iniziata), la sanzione penale per l'operatore pubblicitario che non ottempera al provvedimento dell'Autorità.

Lo stesso articolo, poi, stabilisce: che i ricorsi avverso le decisioni definitive dell'Autorità rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (comma 11); che, ove la pubblicità sia stata assentita con provvedimento amministrativo, preordinato anche alla verifica del carattere non ingannevole della stessa o di liceità del messaggio di pubblicità comparativa, la tutela dei concorrenti, dei consumatori e delle loro associazioni e organizzazioni è esperibile solo in via giurisdizionale con ricorso al giudice amministrativo avverso il predetto provvedimento (comma 12); che è comunque fatta salva la giurisdizione del giudice ordinario, in materia di atti di concorrenza sleale, a norma dell'art. 2598 c.c. nonchè, per quanto concerne la pubblicità comparativa, in materia di atti compiuti in violazione della disciplina sul diritto d'autore protetto dalla L. 22 aprile 1941, n. 633, e successive modificazioni e del marchio d'impresa protetto a norma del R.D. 21 giugno 1942, n. 929, e successive modificazioni, nonchè delle denominazioni di origine riconosciute e protette in Italia e di altri segni distintivi di imprese, beni e servizi concorrenti (comma 13).

La lettura della disposizione consente, dunque, di affermare che la tutela alla quale essa si riferisce è quella di carattere inibitorio, ossia quella tendente al divieto di iniziare o di continuare a porre in essere atti di pubblicità ingannevole ritenuti illeciti in base alle altre disposizioni del decreto stesso. Essa non contempla, invece, le azioni proposte (anche dal singolo consumatore) per il risarcimento del danno che si assume essersi verificato come diretta conseguenza dell'atto pubblicitario ingannevole; azione diretta al riconoscimento del diritto soggettivo al risarcimento del danno ingiusto ex dall'art. 2043 c.c. come tale rientrante nella giurisdizione del G.O.. Tenuto, altresì, conto che nella specie si controverte di tutela della salute, di adeguata informazione e di corretta pubblicità, ossia di quelli che il Codice del consumo (cfr. art. 2) considera diritti fondamentali del consumatore.

In tutt'altro ordine idee si muove, invece, la disposizione quando configura, ai menzionati fini inibitori, la generale attribuzione amministrativa dell'Autorità Garante, la giurisdizione esclusiva del G.A. in sede di ricorso avverso le decisioni definitive dell'Autorità stessa e la giurisdizione del G.A. nel caso in cui la tutela inibitoria venga richiesta avverso atti pubblicitari assentiti con provvedimento amministrativo.

Quest'ultima, da intendersi come ordinaria giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo (dunque, non esclusiva, come, peraltro, erroneamente afferma la ricorrente), è giustificata dal fatto che il provvedimento amministrativo, con il quale (in specifici casi) viene assentita la pubblicità, consolida nel privato il diritto soggettivo a diffonderla; sicchè, la relativa inibizione presuppone il ricorso giurisdizionale innanzi al G.A. tendente alla demolizione del provvedimento amministrativo che l'atto pubblicitario ha assentito.

La disposizione alla quale s'è fatto finora riferimento è stata poi, senza sostanziali modificazioni ai fini che qui riguardano, trasfusa nell'art. 26 del Codice del consumo (D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206) e poi successivamente traslata nell'art. 27 del Codice del consumo, a seguito delle modifiche a quest'ultimo apportate dal D.Lgs. 2 agosto 2007, n. 146, attuativo della direttiva 2005/29/CE. In conclusione, deve essere affermato il principio secondo cui: "Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario - e non del giudice amministrativo, ai sensi del D.Lgs. 25 gennaio 1992, n. 74, art. 7, comma 12, (successivamente art. 26 del Codice del consumo, comma 13, di cui al D.Lgs. n. 206 del 2005, poi art. 27 del Codice del consumo, comma 14 come introdotto dal D.Lgs. n. 146 del 2007, attuativo della direttiva 2005/29/CE) - la controversia promossa da un consumatore per conseguire, ex art. 2043 c.c., il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale (sotto forma di danno alla salute o danno "esistenziale" dovuto al peggioramento della qualità della vita conseguente allo stress ed al turbamento per il rischio del verificarsi di gravi malattie), facendo valere come elemento costitutivo dell'illecito la pubblicità ingannevole del prodotto (nella specie sigarette del tipo "LIGHT"), recante sulla confezione un'espressione diretta a prospettarlo come meno nocivo".

Giova, sul punto ricordare che, alla medesima conclusione (quanto alla giurisdizione del G.O.) sono già pervenute queste Sezioni Unite nell'escludere, sempre rispetto all'azione risarcitoria da pubblicità ingannevole, la giurisdizione dell'AGCM (cfr. Cass. sez. un. 6 aprile 2006, n. 7985, sempre in tema di sigarette "LIGHT"; Cass. sez. un. 29 agosto 2008, n. 21934, quanto all'asserita illegittimità della pubblicità di un prodotto nel corso di una trasmissione televisiva).

Infine, per esaurire il tema anche con riferimento alla competenza, è opportuno porre in evidenza che questa Corte ha già escluso che essa, in siffatta azione, appartenga alle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale, istituite presso i tribunali e le Corti d'appello di alcune città dal D.Lgs. n. 168 del 2003 (cfr. Cass., sez. 3^, 13 febbraio 2007, n. 3086, non massimata), considerato che è un elemento assolutamente accidentale ed irrilevante nella fattispecie che la descrizione "LIGHT" sia contenuta nel marchio registrato e non in altra parte della confezione di sigarette.

B) IL MERITO DELLA VICENDA. Con il primo motivo il ricorso censura la sentenza per violazione e falsa applicazione del criterio di giudizio equitativo (art. 113 c.p.c., comma 2), per avere il giudice di pace adottato un giudizio di tipo intuitivo e non sillogistico, come stabilito da Corte Cost. n. 206/2004. In particolare, la ricorrente si riferisce al punto della sentenza in cui il giudice, pur dando atto dell'intervento in materia della Corte Costituzionale, sostiene che resta, tuttavia, valido il principio fondamentale in virtù del quale ciò che caratterizza e contraddistingue l'equità del giudice di pace è la natura squisitamente intuitiva dell'iter logico della motivazione, potendo egli sostituire con siffatto ragionamento la norma giuridica sostanziale in astratto applicabile, formandola sul caso concreto sottoposto al suo esame. Sostiene, dunque, la ricorrente che, così argomentando, il giudice si sarebbe sottratto all'osservanza dei principi informatori della materia in tema di responsabilità civile.

Nel quarto motivo è censurata la violazione dell'art. 112 c.p.c. in relazione all'omessa pronuncia sull'eccezione di prescrizione delle pretese anteriori al quinquennio o al decennio (con riferimento a responsabilità extracontrattuale o di altro genere).

Il quinto motivo censura la sentenza per avere omesso di accertare la sussistenza o meno degli elementi costitutivi della responsabilità aquiliana, i quali, comunque, non sarebbero riscontrabili nella fattispecie in esame. Sostiene, infatti, la ricorrente che la propria condotta non potrebbe qualificarsi illecita, in quanto l'accertamento della natura ingannevole della dicitura LIGHT, ad opera dell'Autorità Garante, non esplica nessun effetto diretto in ordine all'accertamento della responsabilità civile e, comunque, la dicitura in questione è stata vietata solo dal settembre 2003, sicchè per il periodo precedente la relativa condotta non può essere considerata illecita, tanto più che i pacchetti di sigarette LIGHT riportavano, in modo identico ad ogni altro tipo di sigarette, le avvertenze imposte a salvaguardia della salute dei consumatori. Mancherebbe, inoltre la prova sull'elemento soggettivo dell'illecito civile, non essendo stato dimostrato che, con quella dicitura, la BAT mirasse a presentare le sigarette in questione come meno dannose per la salute.

Il settimo motivo censura la sentenza per violazione e falsa applicazione dei principi informatori in tema di individuazione e prova del danno risarcibile. In particolare, secondo la ricorrente non esisterebbero nè la prova, nè l'accertamento sia in ordine alla perdita della chance da parte dell'attore di scegliere una soluzione alternativa rispetto al "problema fumo", sia in ordine ad un peggioramento della qualità di vita, sia in ordine allo stress ed al turbamento che avrebbero determinato tale peggioramento.

I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati, sono in parte fondati.

Il tema risulta già trattato e risolto da alcune pronunzie di questa Corte, che le Sezioni Unite condividono (cfr. la già citata Cass., sez. 3^, 13 febbraio 2007, n. 3086, nonchè, soprattutto, Cass., sez. 3^, 4 luglio 2007, n. 15131).

Indispensabile premessa è che contro le sentenze del giudice di pace in cause di valore non superiore ad Euro 1100,00, e perciò da decidere secondo equità, il ricorso per Cassazione è stato ammesso (fino alla novella di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006) solo per il mancato rispetto delle regole processuali, per violazione di norme costituzionali e comunitarie (in quanto di rango superiore alla legge ordinaria), ovvero per violazione dei principi informatori della materia, e per carenza assoluta o mera apparenza della motivazione o di radicale ed insanabile contraddittorietà, non essendo invece ammissibile il ricorso per violazione o falsa applicazione di legge, a norma dell'art. 360 c.p.c., n. 3 (Cass. sez. un. 15 ottobre 1999, n. 716, coordinata con la sentenza additiva della Corte Cost. 14 luglio 2004, n. 206).

Sbaglia, dunque, il giudice quando, pur dando atto dell'intervento sul tema della Corte costituzionale, ritiene di poter sostituire, attraverso un iter logico "squisitamente" intuitivo, la norma giuridica in astratto applicabile, formandola o adattandola al caso concreto sottoposto al suo esame. Così ragionando egli trascura del tutto il doveroso rispetto degli imprescindibili principi informatori della materia.

Ripetutamente la giurisprudenza di legittimità ha affermato che l'art. 2043 c.c. fissa i principi informatori della responsabilità civile, ai quali anche il giudice di pace nel giudizio di equità deve attenersi. Principi che possono riassumersi nella necessaria ricorrenza, al fine del riconoscimento della responsabilità risarcitoria, dell'ingiustizia del danno, del nesso causale tra questo e l'azione, dell'elemento psicologico doloso o colposo a sostegno dell'azione. Elementi, tutti, la cui prova è posta a carico di chi esercita la pretesa risarcitoria, secondo l'ordinario canone di cui all'art. 2697 c.c. (soltanto per inciso va detto che è inapplicabile nel giudizio ordinario l'inversione dell'onere della prova che l'art. 27 Cod. cons., comma 5, prevede nel procedimento innanzi all'Autorità Garante, laddove assegna al professionista l'onere di provare, con allegazioni fattuali, che egli non poteva ragionevolmente prevedere l'impatto della pratica commerciale sui consumatori).

Esclusione, dunque, di ogni automatismo tra fatto dannoso e danno risarcibile, nella considerazione, soprattutto, che l'allegazione del provvedimento inibitorio dell'Autorità Garante può tutt'al più fornire al giudice indicazioni in ordine alla natura astrattamente ingannevole della pubblicità (natura che, comunque, deve essere idoneamente provata dalla parte e sufficientemente motivata dal giudice), ma non può certamente fornire la prova dell'ingiustizia del danno, il cui onere rimane pur sempre a carico di chi sostiene che la scorrettezza del messaggio gli abbia arrecato un danno ingiusto (nella specie, abbia leso la salute o l'interesse ad autodeterminarsi liberamente e consapevolmente).

A tal ultimo riguardo occorre fornire risposta a quel profilo del quinto motivo laddove la società sostiene che, essendo vietata la dicitura "LIGHT" solo dal settembre del 2003, la propria precedente condotta non potrebbe essere considerata illecita ai fini risarcitori. La tesi è infondata. E' pur vero a norma dell'art. 7 della direttiva 2001/37/CE (cui è stata data attuazione per il tramite del D.Lgs. n. 184 del 2003) solo dal 30 settembre 2003 sono vietate diciture, denominazioni, marchi, immagini o altri elementi che suggeriscono che un particolare prodotto del tabacco è meno nocivo di altri. Tuttavia, tale circostanza non esclude che la dicitura della quale si discute non possa costituire il fatto integrante la responsabilità aquiliana antecedentemente a tale data. E ciò in quanto nella struttura dell'art. 2043 c.c. non rileva l'illiceità del fatto, bensì l'ingiustizia del danno, ossia che il fatto (assistito almeno dalla colpa) dell'agente abbia prodotto la lesione di una posizione giuridica altrui, ritenuta meritevole dall'ordinamento e non altrimenti giustificata (concetti, questi, che risultano già espressi, in medesima fattispecie, da Cass. sez. 3^, 4 luglio 2007, n. 15131).

Rispetto a tutto quanto finora posto in evidenza, la sentenza impugnata si manifesta affatto carente. Essa manca, infatti, di qualsiasi motivazione in ordine alla natura ingannevole della pubblicità, sussistendo, in proposito, la mera citazione del provvedimento dell'Autorità Garante (del quale non sono riportate neppure le ragioni) ed il riferimento alle affermazioni dello stesso attore; manca, poi, la motivazione in ordine all'esistenza del nesso di causalità tra la propagazione del messaggio ingannevole ed il danno ingiusto lamentato.

Manca, altresì, qualsiasi argomentazione in ordine all'atteggiamento psicologico della società convenuta. Sul punto bisogna dire che la ricorrente ha, per un verso, ragione quando sostiene che tale elemento della fattispecie risarcitoria debba essere adeguatamente provato e motivato; tuttavia essa sbaglia, per altro verso, quando ritiene che sia necessaria la dimostrazione di avere essa mirato a presentare le sigarette in questione come meno dannose per la salute. Così argomentando la società finisce con il pretendere la dimostrazione del dolo, ossia della volontà del comportamento diretto ad ingannare; laddove, invece, è sufficiente presupposto risarcitorio la dimostrazione della colposa diffusione di un messaggio prevedibilmente idoneo ad insinuare nel consumatore il falso convincimento intorno alle caratteristiche ed agli effetti del prodotto.

Manca, infine, nella sentenza impugnata la sufficiente individuazione del pregiudizio risarcibile. Essa - lo si è già visto in precedenza - non accoglie la pretesa dell'attore relativa al danno alla salute, ma limita il risarcimento alla "perdita di chance da parte dell'attore di scegliere liberamente una soluzione alternativa rispetto al problema fumo", nonchè al "danno c.d. esistenziale dovuto al peggioramento della qualità della vita conseguente allo stress ed al turbamento per il rischio di verificarsi gravi danni all'apparato cardiovascolare o respiratorio".

Al riguardo bisogna porre in evidenza come la disciplina comunitaria relativa ai consumatori, pur avendo all'origine lo scopo di proteggere il corretto funzionamento del mercato, si sia gradualmente orientata verso la protezione di specifici interessi del consumatore (in particolare la salute: si pensi alla direttiva comunitaria in materia di sicurezza dei prodotti e prodotti difettosi), fino ad individuarne i diritti e ad attribuire ad alcuni di essi natura fondamentale. Il messaggio ingannevole lede, appunto, il diritto del consumatore alla libera determinazione intorno alla scelta ed all'uso del prodotto, in altri termini "ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso" (art. 21 Codice del consumo, comma 2,).

In alcuni casi, poi, siffatta pubblicità può incidere sul diritto alla salute, costituzionalmente protetto e specificamente menzionato dal Codice del consumo tra i diritti fondamentali del consumatore. Tant'è che "è considerata scorretta la pratica commerciale che, riguardando prodotti suscettibili di porre in pericolo la salute e la sicurezza dei consumatori, omette di darne notizia in modo da indurre i consumatori a trascurare le normali regole di prudenza e vigilanza" (art. 21 Codice del consumo, comma 3, al quale ha fatto riferimento l'Autorità Garante nel vietare l'utilizzo del termine "LIGHT").

Al di fuori dei casi di danno alla salute (che il giudice, come s'è detto, in questo caso ha escluso), in cui la tutela è piena ed incomprimibile, e rispetto ai casi (come quello in esame) in cui sia lamentata anche una generica lesione del diritto all'autodeterminazione consumieristica, nonchè il disagio conseguente alla scoperta di essere stato indotto a tenere una condotta pericolosa (il fumatore sostiene di avere fumato un maggior numero di sigarette "LIGHT" in base all'erroneo convincimento che esse fossero meno dannose per la salute), occorre procedere ad un'attenta selezione dei danni risarcibili, che tenga conto della gravità dell'offesa prodotta. Quanto al diritto all'autodeterminazione, esso può essere tratto dal Codice del consumo che, all'art. 2, riconosce come fondamentali i diritti del consumatore ad una adeguata informazione e ad una corretta pubblicità, nonchè all'esercizio delle pratiche commerciali secondo principi di buona fede, correttezza e lealtà.

Quanto alla paura di ammalarsi, in dottrina è stato fatto riferimento al danno da pericolo già elaborato da queste Sezioni Unite, quando, a proposito del disastro di Seveso, è stato ritenuto risarcibile il danno morale soggettivo lamentato da coloro che avevano subito un turbamento psichico (non tradottosi in malattia) a causa dell'esposizione a sostanze inquinanti ed alle conseguenti limitazioni del normale svolgimento della loro vita (Cass. sez. un. 21 febbraio 2002, n. 2515). Tuttavia, non si può omettere di considerare che siffatta soluzione è stata accolta in un caso in cui il danno lamentato era posto in collegamento causale con un fatto costituente il reato di disastro colposo e, dunque, in riferimento all'art. 185 c.p. Sicchè, rispetto a tale ultima categoria di danni (che la sentenza impugnata menziona genericamente come di tipo "esistenziale") occorre tener conto delle conclusioni alle quali è recentemente pervenuta Cass. sez. un. 11 novembre 2008, n. 26975, che ha identificato il danno non patrimoniale di cui all'art. 2059 c.c. come quello determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, composto in categoria unitaria non suscettibile di suddivisione in sottocategorie. Danno tutelato in via risarcitoria, in assenza di reato ed al di fuori dei casi determinati dalla legge, solo quando si verifichi la lesione di specifici diritti inviolabili della persona, ossia in presenza di un'ingiustizia costituzionalmente qualificata. Tenendo, dunque, conto dell'interesse leso e non del mero pregiudizio sofferto o della lesione di qualsiasi bene giuridicamente rilevante.

Nello svolgere l'indagine sopra prescritta, il giudice può anche servirsi delle presunzioni, nei limiti e nei modi in cui le ammette il codice di rito, ed, una volta individuato il danno, potrà procedere equitativamente alla liquidazione del relativo risarcimento, purchè essa non sia simbolica o affatto svincolata dagli elementi di fatto emersi.

Un'ultima annotazione riguarda la valutazione dell'esigibilità di un diverso comportamento da parte della vittima, ossia l'applicabilità del disposto dell'art. 1227 c.c., comma 2, che esclude il risarcimento per i danni che quella avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza. Ciò nella considerazione che l'attore sostiene di essere stato fumatore di sigarette a pieno contenuto di nicotina e condensato prima di passare al fumo di sigarette "LIGHT", di essere stato già affetto da malattie respiratorie e cardiovascolari connesse al consumo di sigarette e di essere passato al consumo di quelle da lui ritenute meno dannose per l'impossibilità di smettere di fumare.

In conclusione, da quanto premesso è possibile enucleare i seguenti principi:

1) L'apposizione, sulla confezione di un prodotto, di un messaggio pubblicitario considerato ingannevole (nella specie il segno descrittivo "LIGHT" sul pacchetto di sigarette) può essere considerato come fatto produttivo di danno ingiusto, obbligando colui che l'ha commesso al risarcimento del danno, indipendentemente dall'esistenza di una specifica disposizione o di un provvedimento che vieti l'espressione impiegata.

2) Il consumatore che lamenti di aver subito un danno per effetto di una pubblicità ingannevole ed agisca, ex art. 2043 c.c., per il relativo risarcimento, non assolve al suo onere probatorio dimostrando la sola ingannevolezza del messaggio, ma è tenuto a provare l'esistenza del danno, il nesso di causalità tra pubblicità e danno, nonchè (almeno) la colpa di chi ha diffuso la pubblicità, concretandosi essa nella prevedibilità che dalla diffusione di un determinato messaggio sarebbero derivate le menzionate conseguenze dannose.

C) LE CONCLUSIONI. Per quanto riguarda la giurisdizione, per le ragioni esposte sub A), respinto il secondo motivo di ricorso e dichiarato inammissibile il terzo, deve essere dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario.

Quanto agli altri motivi: deve essere accolto il primo, che lamenta il mancato rispetto dei principi informatori della materia; il quarto motivo è inammissibile, in quanto la ricorrente non specifica i termini ed i modi con i quali sarebbe stata eccepita la prescrizione; il quinto ed il settimo motivo (relativamente al sesto v'è rinunzia) vanno accolti nei limiti in precedenza spiegati.

Il ricorso deve essere, dunque, accolto, con rinvio al giudice di pace di Napoli, il quale procederà ad un nuovo esame della causa, adeguandosi ai principi sopra enunciati. Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

LA CORTE Rigetta il secondo motivo di ricorso, dichiara inammissibile il terzo e dichiara la giurisdizione del giudice ordinario. Dichiara inammissibile il quarto motivo. Accoglie il primo, il quinto ed il settimo, cassa la sentenza impugnata e rinvia al giudice di pace di Napoli, nella persona di diverso magistrato, il quale provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 18 novembre 2008.

Depositato in Cancelleria il 15 gennaio 2009 
 

 

 


VENDITA DI COSA FUTURA

Il contratto riguardante la cessione di un fabbricato non ancora realizzato, con previsione dell'obbligo del cedente - che sia proprietario anche del terreno su cui l'erigendo fabbricato insisterà - di eseguire i lavori necessari al fine di completare il bene e di renderlo idoneo al godimento, può integrare alternativamente tanto gli estremi della vendita di una cosa futura (verificandosi allora l'effetto traslativo nel momento in cui il bene viene ad esistenza nella sua completezza), quanto quelli del negozio misto, caratterizzato da elementi propri della vendita di cosa presente (il suolo, con conseguente effetto traslativo immediato dello stesso) e dell'appalto, a seconda che assuma rilievo centrale, nel sinallagma contrattuale, l'intento delle parti avente ad oggetto il conseguimento della proprietà dell'immobile completato ovvero il trasferimento della proprietà attuale del suolo e l'attività realizzatrice dell'opera da parte del cedente, a proprio rischio e con la propria organizzazione. (Cassa e dichiara giurisdizione, App. Catanzaro, 13 Febbraio 2006)

 

 

 

 

  
Cass. civ. Sez. Unite Sent., 12-05-2008, n. 11656

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La società Hermes s.r.l. con citazione notificata il 17.4.2003, conveniva davanti al Tribunale di Catanzaro la regione Calabria per sentirla condannare al pagamento della somma di Euro 21.179.800,00, oltre accessori, a titolo di responsabilità precontrattuale, o, in subordine, al pagamento della somma di Euro 6.507.300,00, oltre accessori, a titolo di indebito arricchimento per l'acquisizione di elaborati contrattuali.

Assumeva l'attrice che era proprietaria di un terreno in località (OMISSIS), su cui aveva diritto, in forza di convenzione con il Comune, a realizzare un complesso edilizio composto da 418 alloggi; che la regione Calabria con Delib. Giunta 16 ottobre 2001, n. 873, pubblicava sulla G.U. un avviso al fine di esperire una ricerca di mercato finalizzata all'acquisizione in locazione con eventuale opzione di acquisto, ovvero all'acquisto anche per cosa futura e/o mediante leasing di un complesso immobiliare esistente o da realizzare in (OMISSIS) da destinare agli uffici regionali; che l'offerta presentata da essa Hermes per la costruzione di un complesso immobiliare con tali caratteristiche veniva giudicata come la più idonea da apposita commissione; che, con Delib. 4 novembre 2002, la Giunta regionale approvava la stipulazione di un contratto di compravendita del complesso immobiliare da costruire, in base ad allegato schema contrattuale, al quale l'attrice dichiarava di aderire; che con Delib. 17 dicembre 2002, n. 1238, la giunta regionale ritirava la precedente deliberazione e con Delib. 27 dicembre 2002, n. 1239, manifestava la propria intenzione di procedere all'acquisto dell'area ed - in mancanza all'espropriazione, realizzando successivamente il complesso immobiliare con la procedura di finanza di progetto di cui alla L. n. 109 del 1994, art. 37 bis; che essa attrice, riservandosi ogni azione per i danni subiti dalle determinazioni regionali, cedeva l'area con atto notarile, in vista della possibilità di esperire una procedura di finanza di progetto nel termine del 28.2.2003; che, essendo inutilmente scaduto tale termine, si vedeva costretta ad adire il tribunale per il risarcimento del danno da responsabilità contrattuale provocato della regione, ex art. 1337 c.c., per avere quest'ultima ingiustificatamente rifiutato di stipulare il contratto di vendita di cosa futura, pur avendo ingenerato in essa attrice un affidamento che l'aveva indotta a sopportare ingenti spese di progettazione ed a rinunziare alla realizzazione del complesso edilizio residenziale, ed in via gradata per il danno da indebito arricchimento per aver la regione utilizzato gli elaborati progettuali e di studio da essa attrice predisposti.

Si costituiva la Regione Calabria, che resisteva alla domanda, eccependo, in via pregiudiziale, il difetto di giurisdizione.

Il Tribunale di Catanzaro, con sentenza n. 46/2005, dichiarava il difetto di giurisdizione dell'AGO in favore del giudice amministrativo.

Su appello della s.r.l. Kermes, la corte di appello di Catanzaro, con sentenza n. 46 del 13.2.2006, rigettava l'appello.

Riteneva la corte di merito che, nonostante il contrario assunto dell'appellante, la sua domanda risarcitoria si riconnetteva all'emanazione di atti amministrativi (delibere del 17 e del 27.12.2002), con cui veniva ritirata in autotutela per vizi di legittimità (violazione di normativa comunitaria e di contabilità pubblica) la Delib. novembre 2002 ed erano disposti l'acquisizione dell'area ed il project financing; che nella fattispecie la regione aveva dato corso ad una "procedura di affidamento di lavori, servizi o forniture"; che la regione era tenuta nella scelta del contraente all'applicazione della normativa comunitaria o al rispetto del procedimento di evidenza pubblica; che la regione aveva indetto una pubblica gara finalizzata all'acquisto di immobili da destinare ad uffici regionali; che le offerte erano state valutate da una commissione; che nella specie era, quindi, applicabile la L. n. 205 del 2000, art. 6 che conferisce al giudice amministrativo la giurisdizione esclusiva nelle ipotesi di affidamento di lavori; che nella fattispecie; trattandosi di esecuzione di opera rispondente ad esigenze della P.A. aggiudicatrice, doveva ritenersi che trattavasi di appalto pubblico di lavoro; che nella fattispecie il contratto allegato alla Delib. 4 novembre 2002, n. 119 aveva solo il nomen iuris di vendita di cosa futura, trattandosi invece di appalto di opera pubblica, poichè era previsto un acconto in corso d'opera, un termine di ultimazione dei lavori e che gli impianti tecnici fossero eseguiti a regola d'arte.

Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione la Hermes s.r.l..

Resiste con controricorso la regione Calabria.

Entrambe le parti hanno presentato memorie.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dei principi generali in materia di riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo e delle norme di cui agli artt. 2043 e 1337 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 1 e 3.

Assume la ricorrente che nel caso di specie non viene in contestazione la legittimità di atti amministrativi, ma soltanto che, avendo la regione agito iure privatorum, a seguito di un avviso di ricerca di mercato, abbia poi omesso di dar corso alla stipulazione del contratto di compravendita di cosa futura, nonostante l'affidamento ingenerato in ordine alla conclusione di tale contratto, con violazione degli obblighi di correttezza e buona fede nell'ambito delle trattative contrattuali, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario, in difetto di ipotesi di affidamento dei lavori, rientrante nella L. n. 205 del 2000, art. 6. 2. Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 205 del 2000, art. 6, comma 1, e dell'art. 11 della direttiva 93/37 CEE, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 1 e 3, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5.

Ritiene la ricorrente che erroneamente nella fattispecie la sentenza impugnata ha ritenuto che si vertesse in ipotesi di affidamento di un appalto pubblico di lavori, le cui controversie rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, poichè la regione non ha predisposto alcun bando di gara, secondo i requisiti e modalità di cui all'art. 11 direttiva 93/37 CEE, ma solo un "avviso in funzione di ricerca di mercato per una locazione con successiva opzione di riscatto ovvero per un acquisto di cose future o per una locazione finanziaria"; che l'avviso non era impegnativo per l'Ente, come espressamente indicato; che sono irrilevanti gli elementi valorizzati dalla sentenza, secondo cui vi era un'apposta commissione di valutazione delle offerte (in quanto tutta la procedura aveva carattere atipico ed informale) e vi furono successivi atti deliberativi della regione (rientrando gli stessi tra gli atti interni di formazione della volontà contrattuale).

3. Con il terzo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 205 del 2000, art. 6, degli artt. 1362, 1363 e 1472 c.c., della L. n. 104 del 1994, art. 2, comma 1, e dell'art. 1, comma 1, lett. a) direttiva 93/37 CEE, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 1 e 3, nonchè l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5.

Assume la ricorrente che erroneamente la sentenza impugnata ha ritenuto che nella fattispecie il contratto che le parti volevano stipulare era un contratto di appalto, mentre in effetti si trattava di contratto di vendita di cosa futura, tenuto conto che le aree su cui doveva essere realizzata l'opera erano di proprietà della Hermes; che era assente l'elemento del facere, caratterizzante il contratto di appalto, mentre nella fattispecie la prestazione consisteva in un dare (la cosa futura e l'area su cui insisteva).

Secondo la ricorrente la corte di merito avrebbe erroneamente attribuito rilevanza ad elementi non incompatibili con il contratto di vendita di cosa futura, e cioè alla previsione di un acconto, del termine di ultimazione dei lavori e dell'obbligo che gli impianti fossero eseguiti a regola d'arte.

Assume la ricorrente che dal contratto, e segnatamente dagli artt. 2, 3 e 4, emerge con chiarezza che si trattava di contratto di acquisto di cosa futura, con conseguente esclusione dell'applicabilità della L. n. 205 del 2000, art. 6 e della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

4.1. I tre motivi di ricorso, essendo strettamente connessi, vanno esaminati congiuntamente.

Con la domanda principale l'attrice ha richiesto la condanna della regione al risarcimento del danno da responsabilità precontrattuale a norma dell'art. 1337 c.c..

Con la domanda subordinata l'attrice ha richiesto la condanna della convenuta all'indennizzo per arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c..

Il giudice di primo grado ha affermato la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Il giudice di secondo grado ha rigettato l'appello, pronunziandosi esclusivamente sulla giurisdizione in merito alla domanda risarcitoria per responsabilità precontrattuale.

Nessuna pronunzia la corte territoriale ha emesso in merito all'affermata giurisdizione amministrativa per l'azione di arricchimento senza causa ed il punto non è stato oggetto di ricorso per cassazione.

4.2. L'affermazione della giurisdizione è stata fondata dal giudice di appello su tre rilievi:

a) la pretesa risarcitoria si riconnetteva all'emanazione di atti amministrativi, cioè alle delibere n. 1238 e 1239 del 2002, di ritiro della precedente deliberazione di approvazione dello schema contrattuale di vendita di cosa futura;

b) nella fattispecie era applicabile la L. n. 205 del 2000, art. 6, comma 1, trattandosi di affidamento di lavori; e) il contratto, relativamente al quale era ipotizzata la responsabilità precontrattuale, costituiva un contratto di appalto e non di vendita di cosa futura.

Va, anzitutto, premesso che con la Delib. n. 873 del 2001 relativa alla ricerca di mercato per l'acquisizione(sia pure attraverso varie formule) di un complesso edilizio e con quella del 4.11.2002, n. 1010, di approvazione della stipulazione del contratto di compravendita secondo lo schema contrattuale allegato, l'amministrazione effettuava la scelta di operare iure privatorum, secondo valutazioni di sua competenza che si inquadravano nei poteri conferitile dalla L. n. 241 del 1990, art. 1.

Avendo ad oggetto tali delibere la ricerca e poi l'acquisizione di un complesso edilizio sul libero mercato si è fuori dalla fattispecie di cui al D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 33 come modificato dalla L. n. 205 del 2000, art. 7.

Quanto al primo punto, su cui si basa la statuizione della sentenza impugnata, va osservato, ai fini della giurisdizione, che la controversia non investe la legittimità di atti amministrativi posti in essere dalla regione:

la ricorrente infatti non lamenta che alcuna delle delibere indicate sia illegittima ovvero che non sia stata data esecuzione a quelle delibere.

Le deliberazioni sono riportate come momento formativo della volontà dell'ente, la quale, per effetto di tali delibere, prima si era formata nel senso di addivenire alla stipulazione di un contratto di acquisto di cosa futura e successivamente nel senso contrario per l'acquisto (o espropriazione) della sola area e per la successiva realizzazione dell'opera con la procedura della finanza di progetto.

La ricorrente appunto lamenta che in un primo momento l'ente aveva trattato per un contratto di acquisto di cosa futura ed in questo senso aveva creato un affidamento nella conclusione di tale contratto e che in un momento successivo aveva interrotto la fase di conclusione, a suo parere ingiustificatamente.

La domanda, quindi, si fonda, come previsto dal paradigma normativo di cui all'art. 1337 c.c., sul comportamento tenuto nei confronti di essa attrice dalla contraente regione nella fase formativa del contratto, per quanto in esecuzione di dette delibere.

4.3. Osserva questa Corte che il punto relativo al "se ed in quali termini tali delibere potessero legittimamente realizzare l'affidamento assunto dell'attrice e giustificare il comportamento della regione di interruzione della contrattazione" è questione che può attenere al merito della controversia sulla pretesa responsabilità precontrattuale, ma non alla giurisdizione.

La domanda risarcitoria proposta dall'attuale appellante prescinde dalla demolizione giuridica di determinazioni amministrative, in quanto ciò che si controverte attiene al danno (asseritamente) subito dalla Società attrice in base ad un contegno posto dall'Amministrazione in violazione delle regole che tutelano il legittimo affidamento delle parti in una trattativa precontrattuale.

5.1. Si pone quindi la questione della responsabilità precontrattuale della P.A..

La giurisprudenza solo con la sentenza n. 1675/1961 delle SS. UU. della Cassazione riconobbe la configurabilità della responsabilità precontrattuale in capo alla Pubblica amministrazione, affermando che compito del giudice di merito non è quello di valutare se il soggetto amministrativo sia stato un corretto amministratore, bensì se sia stato un corretto contraente.

Il limite fondamentale di questa prima - pur importante - pronuncia fu quello di ritenere sussistente la culpa in contrahendo della Pubblica amministrazione in caso di recesso senza giustificato motivo da una trattativa privata (c.d. pura), cioè solo nei casi in cui la Pubblica amministrazione si spoglia dei propri poteri pubblicistici ed opera come un qualunque altro soggetto (con la conseguenza che nelle ipotesi successivamente sempre più ricorrenti - a seguito delle impostazioni di matrice comunitaria - di trattativa privata preceduta da gara informale non potevano applicarsi i principi civilistici della culpa in contrahendo).

Per le procedure di gara (aperte o ristrette), invece, la giurisprudenza continuava ad operare un distinguo: in particolare, se l'illecito era avvenuto prima o dopo l'aggiudicazione. La giurisprudenza riteneva, infatti, che la responsabilità poteva essere affermata solo dopo l'aggiudicazione di una gara.

Questa Corte, nel negare la qualità di contraente al mero partecipante alla gara, anteriormente all'aggiudicazione (donde l'affermazione della normale non applicabilità, in tale fase, della responsabilità precontrattuale della Pubblica amministrazione ai sensi dell'art. 1337 c.c.) ha tuttavia ammesso che, una volta intervenuta l'aggiudicazione, l'aggiudicatario dovesse ormai ritenersi parte a tutti gli effetti (Cass., SS.UU. civ., 26 maggio 1997 n. 4673).

Già prima delle innovazioni del 1998-2000 la giurisprudenza era, dunque, approdata alla conclusione della possibilità dell'applicazione delle regole in tema di responsabilità precontrattuale alla Pubblica amministrazione committente, ancorchè solo dopo l'aggiudicazione, nella fase intercorrente tra l'aggiudicazione e la stipula del contratto.

Il dibattito sull'ammissibilità della responsabilità precontrattuale della Pubblica Amministrazione nell'ambito dell'attività negoziale si è arricchito a seguito delle note riforme del 1998-2000.

Un'ulteriore spinta innovativa è derivata dalla nota pronuncia n. 500/1999 di queste Sezioni Unite sulla risarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi.

5.2. Si ammette oggi pacificamente la configurabilità di una responsabilità precontrattuale a carico anche della P.A., poichè anche a suo carico grava l'obbligo giuridico sancito dall'art. 1337 c.c. di comportarsi secondo buona fede durante lo svolgimento delle trattative, perchè con l'instaurarsi delle medesime sorge tra le parti un rapporto di affidamento che l'ordinamento ritiene meritevole di tutela.

Pertanto, se durante tale fase formativa del negozio una parte viola il dovere di lealtà e correttezza ponendo in essere comportamenti che non salvaguardano l'affidamento della controparte (anche colposamente, in quanto non occorre un particolare comportamento oggettivo di malafede, nè la prova dell'intenzione di arrecare pregiudizio all'altro contraente) in modo da sorprendere la sua fiducia sulla conclusione del contratto, essa risponde per responsabilità precontrattuale.

Invero - pur trascurando in questa primo approccio, l'indagine circa la possibilità di qualificare il rapporto de quo in termini di appalto pubblico di lavori, servizi o forniture - è assorbente il rilievo che la pretesa risarcitoria va posta nel quadro dell'art. 2043 c.c. (al quale il precetto dell'art. 1337 c.c. si collega).

La giurisdizione, quindi, ove si dovesse riscontrare che manchi una norma attributiva al giudice amministrativo della giurisdizione esclusiva nella materia in esame, è devoluta alla cognizione del giudice ordinario senza che assuma rilievo la qualificazione della situazione giuridica dedotta in giudizio come diritto soggettivo o interesse legittimo, in forza dei principi affermati da queste S.U. con sentenza 22 luglio 1999, n. 500 (Cass. S.U. 19.11.2002, n. 16319;

Cass. S.U. 22.6.2003; Case. 16.7.2001, n. 9645).

6.1. Nella fattispecie la domanda è successiva alla data di entrata in vigore della L. n. 205 del 2000, art. 6, comma 1, (art. successivamente abrogato dal D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 256 ma riprodotto in forma pressochè analoga, nel D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 244 - Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture).

Tale norma statuisce che: "Sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie relative a procedure di affidamento di lavori, servizi o forniture svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o del socio, all'applicazione della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale".

Ne consegue che, per effetto di tale norma, è stata configurata una giurisdizione esclusiva in favore del giudice amministrativo anche per l'azione di risarcimento per responsabilità precontrattuale nelle procedure di affidamento di contratti di appalto di lavori, servizi o forniture, da parte di soggetti tenuti nella scelta del contraente all'applicazione della normativa comunitaria o al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica (cfr. Cass. S.U. n. 16319/2002;

Cass. S.U. 18/10/2005, n. 20116; Cons. Stato sez. 5^, n. 7194/2006).

6.2. Tale giurisdizione esclusiva per l'azione di responsabilità precontrattuale non è invece ravvisabile in tema di contratto di compravendita di immobile, in mancanza di una norma specifica.

Nessuna delle direttive comunitarie vigenti al momento dei fatti posti a base della domanda (92/50 in materia di appalti di servizi, 93/36 in materia di appalti di forniture, 93/37 in materia di appalti di lavori), assoggettava alla propria disciplina la compravendita di edifici esistenti.

Sulla stessa linea si è mossa la normativa nazionale di recepimento.

Si consideri, ad esempio, che il D.Lgs. n. 157 del 1995, art. 5, lett. a), esclude espressamente dal proprio ambito di applicazione i contratti aventi ad oggetto l'acquisizione o la locazione, indipendentemente dalle modalità finanziarie, di terreni o edifici esistenti.

7.1. Il problema che si pone è quindi quello di individuare se nella fattispecie il, contratto in fieri tra le parti, di cui si lamenta l'interruzione delle trattative, costituisca un contratto di compravendita di cosa futura (nel qual caso sussisterebbe la giurisdizione del giudice ordinario) o un contratto di appalto di lavori pubblici (nel qual caso sussisterebbe la giurisdizione esclusiva del G.A.).

Nel nostro ordinamento non vige il sistema del nec ultra vires (che caratterizza invece l'attività delle persone giuridiche di diritto pubblico nel sistema anglosassone) e, pertanto, sia le persone giuridiche pubbliche che private hanno la medesima capacità giuridica, per cui la p.a. può porre in essere contratti di diritto privato in assenza di specifici divieti.

A tal fine va osservato che l'acquisto di cosa futura è un istituto che non solo opera in deroga alla normativa generale in materia di appalti pubblici, ma, addirittura, si pone in alternativa all'appalto di opera pubblica, che resta il sistema ordinario per l'acquisizione di opere di pertinenza pubblica.

Sicchè, l'esperibilità della vendita di cosa futura da parte della pubblica amministrazione, pur essendo ammissibile in astratto, in concreto è condizionata dalla ricorrenza di situazioni eccezionalissime e dalla necessità - dettata dalla finalità di evitare intenti elusivi del principio tendenziale e generale del procedimento d'appalto - che l'amministrazione valuti preventivamente la possibilità di ricorrere alle procedure ordinarie di realizzazione delle opere pubbliche (Cons. Stato 1.3.2005, n. 816).

Infatti il Cons. Stato, (Ad. Gen.), 17/02/2000, n. 2, ha ritenuto che l'istituto della compravendita di cosa futura non è stato espunto dall'ordinamento con il sopravvenire della più recente legislazione sui lavori pubblici, salvo verificare se, in concreto, l'amministrazione abbia stipulato un contratto di vendita o di appalto.

E' quindi ammissibile il ricorso alla compravendita di cosa futura, ma solo nei ristrettissimi limiti in cui l'opera da acquisire costituisca, secondo un ampiamente motivato e documentato apprezzamento dell'amministrazione, un bene infungibile, con riguardo alle sue caratteristiche strutturali e topografiche, ovvero un "unicum" non acquisibile in altri modi, ovvero a prezzi, condizioni e tempi inaccettabili per il più solerte perseguimento dell'interesse pubblico.

Ne consegue la necessità che l'amministrazione valuti preventivamente la possibilità di ricorrere alle procedure ordinarie di realizzazione delle opere pubbliche, e ove ne verifichi la non praticabilità in relazione a specialissime, motivate e documentate esigenze di celerità, funzionalità ed economicità, potrà scegliere di acquisire l'immobile secondo il meccanismo della compravendita.

7.2. Occorre, quindi, esaminare se nella fattispecie il contratto in fieri avesse ad oggetto un appalto o una vendita di cosa futura.

A tal fine va ribadito che di nessun rilievo è, ai fini della giurisdizione, accertare se sussistevano le condizioni per la Regione per poter utilizzare il contratto di compravendita di cosa futura, per poter procedere in autotutela a "ritirare" la delibera che aveva dato inizio ai contatti, e se la controparte avesse conoscenza di eventuali illegittimità procedimentali e quale rilievo ciò avesse nella fattispecie.

In questa sede relativa all'accertamento della pretesa violazione dei principi sulla giurisdizione, occorre solo acclarare se il contratto in corso di formazione in questione integrasse un contratto di appalto di lavori o di compravendita di cosa futura, poichè solo questo determina l'applicabilità o meno della giurisdizione esclusiva del GA, anche per la responsabilità precontrattuale.

7.3. Comunemente si sostiene che la vendita ha per oggetto un dare, mentre l'appalto ha per oggetto un facere.

La prima è diretta ad un trasferimento, mentre il secondo è inteso in primis alla produzione di un opus, mediante un'attività elaboratrice.

L'uno presuppone l'esistenza attuale della cosa;

l'altro l'inesistenza ed è posto in essere per produrla.

Il problema si complica allorchè si tratta di vendita di cosa futura (art. 1472 c.c.) e cioè di bene non ancora esistente, segnatamente allorchè si tratti un prodotto d'opera non ancora realizzato e per l'esistenza del quale occorre l'attività strumentale positiva dell'alienante.

Anche in relazione a questo tipo di vendita si ritiene dalla dottrina maggioritaria e dalla giurisprudenza che si versi in ipotesi di contratto ab inizio perfetto, ricorrendo in esso tutti gli elementi essenziali del contratto, ma ad effetti obbligatori, poichè il momento traslativo sussisterà solo allorchè la cosa sia venuta ad esistenza: l'esigenza di tutelare il compratore contro il rischio del perimento dell'opera che si trovi ancora nella sfera di controllo dell'alienante induce a ritenere che l'opera debba ritenersi esistente solo al momento del suo completamento (Cass. 18.5.2001 n. 6851; Cass. n. 8118/1991; Cass. n. 3854/1989).

7.4. I criteri di distinzione proposti sono sostanzialmente due. Un primo criterio di distinzione, che può definirsi obbiettivo, propone di distinguere l'appalto dalla compravendita di cosa futura in base alla prevalenza quantitativa dell'elemento lavoro sull'elemento materia (il principio è applicato soprattutto in materia tributaria, essendo il criterio seguito dal D.P.R. n. 633 del 1972, Cass. sez. 5^, n. 9320/2006).

Si è validamente obbiettato, allorchè tale criterio è stato trasferito fuori dall'area tributaria, che non è la prevalenza quantitativa del lavoro sulla materia che ha valore decisivo, ma il modo come il lavoro è considerato dalle parti.

Il secondo criterio di distinzione tra i due contratti è quello subiettivo, alla stregua del quale dovrà vedersi in che modo le parti hanno considerato l'opera, se cioè in sè stessa o in quanto prodotto necessario di un'attività e quindi se la volontà delle parti aveva ad oggetto un dare o un facere.

Il criterio subiettivo è quello più seguito dalla giurisprudenza (Cass. 20.10.1997 n. 10256; Cass. 19.11.2002, n. 16319; Cass. 2.8.2002, n. 11602).

Per volontà delle parti deve intendersi non l'intenzione soggettiva, cioè l'opinione che esse abbiano avuto della natura del rapporto, ma l'intento empirico tipico in cui si inquadra la volontà che le muove.

E' stato già rilevato che il privato non è padrone delle conseguenze giuridiche dei negozi che compie, le quali si producono vi legis e non vi voluntatis.

La cosiddetta libertà contrattuale dei privati comincia e termina con la creazione dell'elemento di fatto del negozio e cioè con la manifestazione di un determinato intento empirico.

L'effetto giuridico è indipendente dalla rappresentazione che se ne faccia l'agente, il quale nessuna diretta influenza potrà esercitare su di esso. Quando perciò si propone di far richiamo alla volontà delle parti per qualificare il negozio, per volontà delle parti si deve intendere il dato dell'intento empirico che le parti hanno dimostrato di voler conseguire: se tale intento empirico coincide con quello della vendita, nel senso che il conseguimento della cosa costituisce la vera ed unica finalità del negozio ed il lavoro sia solo il mezzo per produrla, si ha vendita di cosa futura; se coincide con quello proprio dell'appalto, nel senso che l'attività realizzatrice della cosa sia la vera finalità del negozio, si ha appalto.

7.5. In giurisprudenza è stato più volte deciso che il contratto avente ad oggetto il trasferimento della proprietà di un'area edificabile in cambio di un fabbricato o di alcune sue parti da costruire sulla stessa superficie a cura e con i mezzi del cessionario, può integrare sia un contratto di permuta di un bene esistente con un bene futuro, sia un contratto misto, costituito con gli elementi della vendita e dell'appalto.

Si configura il primo contratto se il sinallagma negoziale sia consistito nel trasferimento reciproco della proprietà attuale con la cosa futura (ipotesi la quale si verifica anche se si sia previsto il pagamento di un conguaglio in denaro, non incidendo tale clausola sulla causa tipica del negozio di permuta) e l'obbligo di erigere l'edificio sia restato su un piano accessorio e strumentale, mentre si ravvisa l'altro contratto, qualora la costruzione del fabbricato sia stata al centro della volontà delle parti e l'alienazione dell'area abbia costituito soltanto il mezzo per conseguire l'obiettivo primario (Cass. 09/11/2005, n. 21773; Cass. 12/04/2001, n. 5494; Cass. 24/01/1992, n. 811; Cass. n. 13 del 1990, Cass. n. 5147 del 1987).

7.6. Ritengono queste S.U. di dover aderire a tale orientamento consolidato, anche in tema di differenza tra vendita di cosa futura ed appalto.

Pertanto il contratto avente ad oggetto la cessione di un fabbricato non ancora realizzato, con previsione dell'obbligo del cedente - che sia proprietario anche del terreno su cui l'erigendo fabbricato insisterà - di eseguire i lavori necessari al fine di completare il bene e di renderlo idoneo al godimento, può integrare alternativamente tanto gli estremi della vendita di una cosa futura (verificandosi allora l'effetto traslativo nel momento in cui il bene viene ad esistenza nella sua completezza), quanto quelli del negozio misto, caratterizzato da elementi propri della vendita di cosa presente (il suolo, con conseguente effetto traslativo immediato dello stesso) e dell'appalto: e ciò a seconda che nel sinallagma contrattuale, assuma un rilievo centrale il conseguimento della proprietà dell'immobile completato ovvero tale ruolo centrale sia costituito dal trasferimento della proprietà attuale (del suolo) e dall'attività realizzatrice dell'opera da parte del cedente.

Si avrà quindi vendita di cosa futura quando l'intento delle parti abbia ad oggetto il trasferimento della cosa futura e consideri l'attività costruttiva nella mera funzione strumentale e per contro si avrà vendita con effetti reali del suolo ed appalto della costruzione, quando l'attività costruttiva, che il cedente assume a proprio rischio con la propria organizzazione, viene considerata come oggetto della prestazione di fare.

In quest'ultima ipotesi si verserà in ipotesi di contratto misto (di vendita e di appalto),la cui disciplina giuridica va individuata, in base alla teoria. dell'assorbimento, che privilegia la disciplina dell'elemento in concreto prevalente, in quella risultante dalle norme del contratto atipico nel cui schema sono riconducibili gli elementi prevalenti (cosiddetta teoria dell'assorbimento o della prevalenza), senza escludere ogni rilevanza giuridica degli altri elementi, che sono voluti dalle parti e concorrono a fissare il contenuto e l'ampiezza del vincolo contrattuale, elementi ai quali si applicano le norme proprie del contratto cui essi appartengono, in quanto compatibili con quelle del contratto prevalente (Cass. 24/07/2000, n. 9662; Cass. 08/02/2006, n. 2642).

7.7. Viene poi costantemente affermato che l'indagine sul reale contenuto delle volontà espresse nella convenzione negoziale "de qua", risolvendosi in un apprezzamento di fatto, è riservata al giudice del merito ed è conseguentemente incensurabile in sede di legittimità se sorretta da adeguata motivazione.

Sennonchè nella fattispecie il ricorso è proposto soprattutto sotto il profilo di violazione delle norme in tema di giurisdizione, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 1.

In proposito vige, quindi, il diverso principio secondo cui questa Corte, istituzionalmente giudice di legittimità, per quanto riguarda le questioni di giurisdizione è anche giudice del fatto e, come tale, ha il potere di apprezzare direttamente i "fatti", anche non processuali,, e di trarre conseguenze autonome e indipendenti, non solo dalle deduzioni delle parti, ma anche dal giudice del merito (Cass. S.U., 22/07/2002, n. 10696, Cass. S.U. 10/08/2000, n. 560;

Cass, S.U. 19 febbraio 1999, n. 79; Cass. S.U. 9 ottobre 1984, n. 5028; Cass. S.U. 19 novembre 1979, n. 6025).

I "fatti" sulla base dei quali la giurisdizione deve essere determinata sono, anzitutto, quelli allegati alla domanda (arg. ex art. 386 c.p.c.), ma è evidente che se un'attività istruttoria è stata, almeno in parte, espletata, la Corte deve tener conto delle sue risultanze e procedere alla loro valutazione.

8.1. Passando quindi ad esaminare i fatti, il punto di partenza è costituito dalla "ricerca di mercato" deliberata dalla giunta regionale con Delib. 16 ottobre 2001, n. 873, "finalizzata all'acquisizione in locazione con opzione di acquisto....... ovvero all'acquisto anche per cosa futura e/o mediante locazione finanziaria esistente, in corso di realizzazione o da realizzare ubicato nella città di (OMISSIS)....".

Contrariamente a quanto ritenuto dalla sentenza impugnata nella fattispecie non si trattava di "un bando di gara per la realizzazione dell'appalto del complesso immobiliare", ma semplicemente di un avviso con funzione di consentire una ricerca di mercato al fine di acquisire un complesso immobiliare per gli uffici regionali.

Sulla scorta della più attenta giurisprudenza del Consiglio di Stato (cfr. sez. 6^, 29 marzo 2001, n. 1881), deve essere rimarcata la differenza fra sondaggio esplorativo e gara ufficiosa istituti entrambi utilizzabili nella trattativa privata: il primo tende solo ad acquisire una conoscenza dell'assetto del mercato e dunque dell'esistenza di imprese potenziali contraenti e del tipo di condizioni contrattuali che sono disposte a praticare; il secondo, oltre ad essere strumento di conoscenza implica una valutazione comparativa delle offerte, valutazione che è insita nel concetto stesso di gara e che pone l'obbligo per l'amministrazione di rispettare le prescrizioni assunte in sede di autovincolo, in ossequio ai canoni di trasparenza, buon andamento ed imparzialità.

Ma, al di fuori del rispetto di tale autovincolo, la gara informale non snatura le linee fondamentali ed i caratteri tipici della trattativa privata, trasformandosi in una procedura meccanica di gara formale ad evidenza pubblica.

Già dal modo di "porsi sul mercato" con tale "ricerca di mercato" emerge che la regione mirava ad acquisire il godimento di un immobile (come diritto personale o come contenuto del diritto di proprietà) tramite preventiva locazione, anche finanziaria, con diritto di riscatto ovvero con acquisto di cosa futura, e non l'attività realizzatrice di un appaltatore.

8.2. Infondato è l'assunto della sentenza impugnata, secondo cui con lo schema della vendita di cosa futura sarebbe incompatibile la previsione di acconti.

Incompatibile con la vendita di cosa futura non è l'acconto di per sè, quanto la previsione di acconti in corso d'opera in relazione a stati di avanzamento dei lavori, propri, invece dell'appalto.

Mentre nell'appalto l'acconto si giustifica in virtù del SAL e dunque di una parziale esecuzione dell'oggetto del contratto, nella vendita di cosa futura l'adempimento dell'alienante si configura solo con il completamento del bene, per cui antecedentemente non è previsto un pagamento per un "parziale" adempimento.

Sennonchè nello schema di contratto allegato alla Delib. n. 119 del 2002 il pagamento di 14 milioni di Euro è previsto non come "acconto d'opera", ma come anticipazione di pagamento di parte del prezzo finale.

8.3. Egualmente infondato è l'assunto della sentenza impugnata, secondo cui la previsione di un termine di ultimazione dei lavori sarebbe tipica dell'appalto e normalmente estranea all'ipotizzato contratto di vendita.

Infatti, allorchè la vendita di cosa futura preveda che la cosa venga ad esistenza attraverso il comportamento dell'alienante e che, quindi, sia pure quale elemento accessorio, sia prevista un'attività di questi, è perfettamente conciliabile con tale schema contrattuale la fissazione di un termine entro cui detta cosa futura debba venire ad esistenza.

8.4. Neppure è elemento, che milita necessariamente per la qualificazione dello schema contrattuale come appalto, l'obbligo assunto dall'attrice di realizzare gli impianti a perfetta regola d'arte, in quanto anche nella vendita di cosa futura devono essere preventivamente individuate le caratteristiche tecniche dell'opera da realizzare, analogamente quanto alla costituzione di una commissione di esperti per verificare la "regolare esecuzione del contratto", in quanto l'intervento di detta commissione, non è stato previsto come controllo in corso d'opera, quale quello che effettua il direttore dei lavori della stazione appaltante o l'ingegnere capo, ma dopo la realizzazione e consegna dell'opera.

Non potendo tale commissione incidere nel momento del facere, il ruolo ad essa spettante è solo quello di verifica dell'opera compiuta, che è perfettamente conciliabile con la vendita di cosa futura.

Inoltre nella fattispecie si tratta di commissione paritetica, composta da rappresentati di entrambi le parti, mentre tali non sono i controlli svolti in corso di contratto di appalto.

Ritenuti, quindi, insussistenti gli elementi posti dalla sentenza impugnata a base della qualificazione del contratto in questione quale contratto di appalto, vanno ora esaminati, quali sono gli elementi che fanno qualificare detto contratto come contratto di vendita di cosa futura.

8.5. E' vero che il nomen iuris dato dalle parti allo schema contrattuale in questione di per sè non è rilevante e neppure lo è l'art. 4 nella parte in cui dichiara che "le parti convengono espressamente che il presente contratto si configura come acquisto di cosa futura, anche agli effetti dell'art. 1472 c.c.", per le ragioni già dette, secondo cui ciò che conta non è l'intenzione soggettiva delle parti sulle conseguenze giuridiche delle volontà espresse, ma l'intento empirico di tale manifestazioni di volontà.

In questo senso sono quindi rilevanti l'art. 2, in cui la Hermes dichiara di trasferire la piena proprietà del complesso immobiliare da realizzare in (OMISSIS) e la Regione Calabria dichiara di acquistare tale bene; l'art. 3, in cui le parti dichiarano che oggetto del trasferimento sono l'appezzamento del terreno, i manufatti e le opere da realizzare; l'art. 4, nella parte in cui le parti specificano che la proprietà dei beni sarà trasferita alla regione solo nel momento in cui il complesso viene ad esistenza.

8.6. Quanto all'interpretazione delle clausole contrattuali va, anzitutto, rilevato che l'art. 1362 c.c., allorchè nel comma 1 prescrive all'interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, non svaluta l'elemento letterale del contratto, anzi intende ribadire che, qualora la lettera della convenzione, per le espressioni usate, rilevi con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e non vi è divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è ammissibile; soltanto quando le espressioni letterali del contratto non sono chiare, precise ed univoche, è consentito al giudice ricorrere agli altri elementi interpretativi indicati dagli artt. 1362 e ss. c.c., che hanno carattere sussidiario (Cass. 22/02/2007, n. 4176; Cass. 1.4.1993, n. 3936).

Pertanto, nella ricerca della comune intenzione dei contraenti, il primo e principale strumento dell'operazione interpretativa, è costituito dalle parole ed espressioni del contratto e, qualora queste siano chiare e dimostrino un'intima ratio, il giudice non può ricercarne una diversa, venendo così a sovrapporre la propria soggettiva opinione all'effettiva volontà dei contraenti (Cass. 22/12/2005, n. 28479; 03/12/2004, n. 22781; Cass. 22.4.1995, n. 4563).

8.7. Nella fattispecie, come risulta sia dall'avviso di ricerca di mercato che dallo schema del contratto, l'interesse dell'amministrazione non era tanto quello di ottenere il suolo per una successiva trasformazione del medesimo, quanto l'acquisizione di un edificio già realizzato rispetto al quale sia l'acquisto del suolo che il lavoro del costruttore appaiono come elementi indispensabili, ma comunque accessori, rispetto all'oggetto effettivo del contratto.

Peraltro, come si è visto, a fronte della ritenuta natura del contratto come compravendita di cosa futura, non avrebbe mai potuto sussistere solo un contratto di appalto, in quanto il terreno era della stessa Hermes (ipotetica appaltatrice) ed il contratto in questione sarebbe stato un contratto di appalto di opera pubblica su terreno di proprietà dello stesso appaltatore, ma un contratto misto di vendita con effetti reali di bene esistente (il terreno) e di contestuale appalto per la realizzazione dell'edificio.

Sennonchè, come detto, dall'art. 2 del contratto emerge che l'intento delle parti non era quello di trasferire la sola proprietà del terreno ma anche quella dell'intero complesso da realizzare e che lo stesso trasferimento della proprietà del terreno sarebbe avvenuto in una alla proprietà del complesso immobiliare, allorchè esso sarebbe stato ultimato.

8.8. In merito al passaggio di proprietà dell'opera nell'appalto di costruzione di immobili, la dottrina, che se ne è occupata, ritiene condivisibilmente che, se il suolo è di proprietà del committente, l'opera nasce di sua proprietà per accessione; se invece il terreno è dell'appaltatore (o perchè già suo o perchè l'abbia acquistato ai fini dell'esecuzione del contratto di appalto, rivestendo in questo acquisto la qualità di mandatario del soggetto committente l'appalto) e non sia stato trasferito al committente, l'appaltatore che ha fornito anche i materiali ed il lavoro, è acquirente originario della proprietà dell'opera, che passa nella proprietà del committente solo con l'accettazione dell'opera, che deve essere data per iscritto, trattandosi di immobili.

Nella fattispecie - invece - il trasferimento della proprietà era previsto nel contratto per effetto della sola venuta ad esistenza ed ultimazione del complesso e non per effetto dell'accettazione, il che è conforme alla disciplina della vendita di cosa futura.

9.1. Ne consegue che, non versandosi in ipotesi di procedura di affidamento di appalto di lavori, ma di trattative relative ad un contratto di compravendita di cosa futura, per la proposta azione di responsabilità precontrattuale nei confronti della regione convenuta, non sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (per le controversie relative alle procedure di affidamento di lavori da parte delle P.A., ai sensi della L. 21 luglio 2000, n. 205, art. 6), ma la giurisdizione del giudice ordinario.

Infatti, esclusa l'applicabilità di tale ultima norma, la giurisdizione va affermata sulla base dei criteri di riparto ancorati alla distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi, e perciò in funzione della natura giuridica delle situazioni soggettive dedotte in giudizio.

Tale natura attiene ad una pretesa il cui soddisfacimento non postula la demolizione di alcun atto amministrativo, giacchè allega un illecito extracontrattuale a carico della P.A. e non contesta la procedura relativa alla individuazione del contraente (Cass. S.U. n. 9645 del 2001, e 10160 del 2003; Cass. S.U. 03/07/2006, n.15199;

Cass. S.U. 6/02/2006, n. 2450).

9.2. Va pertanto accolto il ricorso; va cassata l'impugnata sentenza e dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario, con conseguente rinvio al tribunale di Catanzaro, in diversa composizione, quale giudice di primo grado, ai sensi dell'art. 383 c.p.c., comma 3, e art. 353 c.p.c., comma 1, anche per le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso.

Cassa l'impugnata sentenza; dichiara la giurisdizione del giudice ordinario e rinvia la causa al Tribunale di Catanzaro, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 22 aprile 2008.

Depositato in Cancelleria il 12 maggio 2008

 


 
 

Risoluzione ottimale: 1024x768 - Tutti i diritti sui contenuti sono riservati  © 2009
Studio Legale Boscarelli - Via XXIV Maggio n. 2 - 82100 BENEVENTO - Privacy Policy - Cookie Policy - P.IVA 01372350627